giovedì 13 ottobre 2011

Il primo capitolo del romanzo (il resto lo trovate in libreria)

Il primo starnuto era arrivato all'ora di colazione, mentre Enrico Waller cercava di recuperare, con le dita, i resti di un biscotto affondato nella tazza del caffelatte. Con l’indice immerso per intero, come uno scandaglio, aveva individuato sul fondo della tazza i resti del biscotto. Affiancando anche il dito medio, aveva cercato di sollevarlo, ma ormai il biscotto aveva la consistenza di una seppia strabollita e si scioglieva in mano. Neanche l’intervento del pollice era servito a migliorare le cose. A quel punto Enrico, immerse tutte e cinque le dita nella tazza e usando la mano come una escavatrice, aveva estratto dal fondo ciò che rimaneva. 

I fratelli erano rimasti ad ammirare l’impresa in silenzio, certi che anche quella volta Enrico sarebbe riuscito a recuperare tutto senza difficoltà. Ma non c’era stato niente da fare, tra le dita colava un pastone fradicio e zuccheroso: biscotto disintegrato. Enrico guardava da vicino quel mucchietto inconsistente; aveva quasi l’impressione che quel piccolo disco di pasta zuccherata si fosse suicidato di proposito negli abissi del caffelatte, con il preciso intento di fare un torto alla sua abilità di colazionaio. 

I tre fratellini di casa Waller, infatti, sin da piccoli, si erano inventati una serie di titoli da conquistare tra le pareti di casa. Il titolo di colazionaio veniva assegnato a chi riusciva ad intingere il biscotto nel tè o nel caffelatte, immergendolo fino al fondo della tazza ed estraendolo senza spappolarlo. Impresa praticamente impossibile, visto che la mamma acquistava i peggiori biscotti in circolazione, i poltelli, quelli sempre in offerta dal droghiere all’angolo e che nessuno, tranne lei, osava comperare in tutto il quartiere. I poltelli non erano male come sapore, ma avevano il colore del mal di mare. Il droghiere, e la mamma dei fratelli Waller ci credeva, diceva che quel colore era dovuto alle sostanze naturali: quei biscotti non erano stati trattati con conservanti. A Enrico e ai suoi fratelli la cosa non interessava granché. Loro i poltelli li adoravano perché erano così inconsistenti da rendere quasi leggendaria la lotta per il titolo di colazionaio. 

Le regole erano chiare: il biscotto andava immerso per intero nel caffelatte o nel tè e doveva essere tenuto lì sotto per dieci secondi. Allo scadere dei dieci secondi il poltello veniva estratto e fatto colare. A quel punto doveva essere ingoiato senza che si rompesse. Roberto, il più piccolo dei fratelli di Enrico, di tanto in tanto riusciva miracolosamente ad estrarre il poltello fradicio ancora intero e rimaneva quasi paralizzato di fronte a quel successo parziale. Tremante, si avvicinava con il viso tenendo la mano destra chiusa a tenaglia sul poltello e inclinando la testa per arrivare con la bocca spalancata sulla verticale del biscotto. Inesorabilmente, il poltello si spappolava tra le dita un istante prima del lancio tra le fauci e piombava nella tazza, inondando tutto intorno la tovaglia. Enrico non temeva la rivalità dei fratelli e, anche quando questi sembravano avvicinarsi al titolo, ostentava una sicurezza incondizionata. 

Teneva per sé l’onore di tentare per ultimo la prova, dopo aver assistito ai tonfi di chi lo aveva preceduto. Il suo poltello riemergeva dalla tazza inzuppato e gonfio, eppure Enrico lo maneggiava come fosse ancora secco e granitico e lo portava alla bocca infilandolo dritto come l’ostia consacrata, sfidando la legge di gravità che avrebbe voluto trascinare verso il basso quell’ammasso fumante.
La sua abilità era così evidente che i fratelli non erano nemmeno seccati di perdere regolarmente la competizione. Al contrario, lo spettacolo era così entusiasmante che valeva la pena rinnovare la sfida tutti i giorni per poter assistere alle evoluzioni di Enrico. Ma quella mattina, quando dalla tazza era uscito un poltello spiaccicato, a tutti era sembrato evidente che si trattasse di un segno del cielo, come se stesse per accadere qualche cosa di straordinario.

Mentre osservava i resti del biscotto e si chiedeva il perché di quella disfatta mattutina, qualcosa si era messo in moto dentro di lui. Enrico aveva sentito salire dallo stomaco come la sensazione di un esercito di formiche in marcia nelle viscere. Un solletico incontenibile si stava diffondendo dentro al suo corpo. Pareva quasi che, in prossimità della gola, si fossero date appuntamento milioni di bollicine dell’acqua minerale, come una folla di manifestanti che si radunasse in una piazza prima di percorrere le vie della città.

E quel corteo, proprio come in una vera manifestazione, improvvisamente aveva caricato con tutta la forza di una massa di persone spinta da una mano enorme e, risalendo a velocità impressionante il tratto impervio dalla gola al naso, era esploso con forza tonante in uno starnuto che aveva rovesciato tutto ciò che stava sopra il tavolo. Le tazze, sbilanciate dall’onda d’urto, erano precipitate a terra in un fragore di porcellana frantumata, accompagnate dal caffelatte in caduta libera verso il pavimento tirato a lucido. La tovaglia, inzuppata e fradicia, si era sollevata come un tappeto volante, ricadendo sulle teste dei fratelli di Enrico, mentre la finestra della cucina, già provata dalle vibrazioni del passaggio della metropolitana, era scoppiata in un milione di pezzettini, polverizzandosi in una nube cristallina.

Tutte le porte dell’appartamento, per il gioco di correnti che si era creato, avevano iniziato a chiudersi in sequenza, una dopo l’altra con violenza sempre maggiore, fino alla porta blindata d’ingresso che, spinta dall’energia accumulata dalle porte di camere, cucina e bagno, si era scardinata portando con sé grossi blocchi di calcinacci, volando dritta giù per la tromba delle scale come una bomba sganciata all’alba. 

Il fragore dello starnuto di Enrico si era propagato nel quartiere con un gioco di eco prolungate.

Nessun commento: